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Old 05-30-2011, 11:30 PM   #1
rushuang9812
 
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Obama, e il problema Afghano
Il presidente Usa a West Point ha annunciato l’invio di altri trenta mila soldati e ha chiesto ai paesi Nato e della missione Isaf altri dieci mila uomini.
Entro l’estate 2010 partiranno altri dieci mila soldati. Il ritiro dal paese asiatico è previsto dal 2011
 Trenta mila soldati in più. Diciotto mesi per ottenere risultati e cominciare il ritiro. Altri dieci mila soldati in più dai paesi della Nato e della missione Isaf.
Civili esperti nell’agricoltura per aiutare la popolazione. Ci sono voluti tre mesi, una dozzina di riunioni del Consiglio di guerra nei sotterranei della Casa Bianca, l’analisi di decine di possibili piani.
Alla fine il presidente degli Stati Uniti ha deciso così. E la decisione si basa sulla considerazione che , se non ci fosse stato l’11 Settembre e la distruzione delle Torri Gemelle con tre mila morti, mai gli Usa avrebbero pensato ad una avventura militare in Afghanistan.
Entro l’estate del 2010 altri 30 mila soldati saranno inviati in Afghanistan, portando così a 98 mila il numero di militari americani impegnati in Afghanistan. I primi quasi tutti del corpo dei Marines arriveranno già entro la fine di dicembre.
La maggior parte dei rinforzi saranno dislocati a sud e a est del Paese. Entro 18 mesi Barack Obama chiede risultati concreti per cominciare il ritiro del contingente.
Barack Obama ha anche annunciato di aver chiesto agli alleati della Nato di inviare altri rinforzi fino a un massimo di 10 mila soldati. Se questo avverrà entro pochi mesi in Afghanistan ci sarà un corpo di spedizione di quasi 150 mila uomini.
Ha spiegato Obama: «In questo modo potranno combattere gli insorti e mettere al sicuro i centri chiave del Paese. Incrementeranno la nostra capacità di addestrare capaci forze di sicurezza afgane, e di essere partner in questa battaglia.
Inoltre, aiuteranno a creare le condizioni perché gli Stati Uniti trasferiscano la responsabilità agli afgani». Il piano del presidente Usa contiene alcune novità nella strategia politica e militare per arrivare alla sconfitta di Al Qaeda e dei talebani.
A cominciare dalla scelta secondo la quale le truppe Usa e Nato non sono lì per costruire una nazione da affidare poi a un governo locale. La missione ha come obiettivo la sconfitta del terrorismo modello Al Qaeda e l’addestramento dlele forze di sicurezza dell’Afghanistan a cui affidare nel tempo più breve possibile la responsabilità della sicurezza. La seconda novità sta nell’annuncio che la missione non durerà a tempo indefinito.
Barack Obama intende cominciare il ritiro dall’Afghanistan entro luglio del 2011: come nel caso dell’Iraq, il cosiddetto surge si è dato 18 mesi per vedere risultati concreti.
L’Afghanistan sarà il Vietnam di Barack Obama? Il presidente non ha eluso questa domanda che negli americani è ben presente. Ha detto: «Chi pensa questo ha un afalsa lettura dlela nostra storia.
Al contrario dell’esperienza in Vietnam, in Afghanistan c’è una grande coalizioen che comprende 43 Paesi. E, al contrario di quanto avvenne in Vietnam, l’America è stata attaccata a tradimento, e resta l’obiettivo per quegli stessi estremisti che pensano a nuovi attacchi. Abbandonare l’Afghanistan ora significa lasciare che Al Qaeda pensi a nuovi attacchi sul nostro territorio e su quello dei nostri alleati».
La scelta della Casa Bianca è stata dettata anche da tre considerazioni.
La prima: il presidente Obama non può alienarsi la larga fetta di opinione pubblica che è contro la guerra: darsi delle scadenze temporali significa mantenere aperto il canale con questa parte del Paese che conta tantisimi elettori di Obama che non possono essere abbandonati anche perché a novembre del 2010 sono previste le elezioni di Mid term per il rinnovo di parte della camera e del senato.
 La seconda: l’impegno finanziario della scelta di portare a quasi 100 mila i soldati americani presenti in Afghanistan peserà non poco sulle finanze pubbliche: ogni soldato in più costerà un milione di dollari l’anno ai contribuenti e l’impegno totale intorno ai 25-30 miliardi di dollari in più.
 La terza: aver posto delle scadenze temporali per cominciare il ritiro vuole essere un messaggio forte alla leadership dell’Afghanistan a comincare dal presidente Hamid Karzai: o gli afgani cambiano strada chiudendo la porta alla corruzione, alla protezione dei grandi trafficanti di oppio, all’atteggiamento passivo nei confronti degli insorti, oppure rischiano ben presto di doversela vedere da soli.
Il presidente ha anche deciso di rafforzare la presenza di civili in terra afgana. Saranno in gran parte esperti nel campo dell’agricoltura, dei sistemi di irrigazione, della organizzazione commerciale per la vendita dei prodotti della terra, della costruzione di strade, della sanità e dell’educazione.
Non è stato comunicato quanti saranno, ma solo che agiranno sotto la direzione del Dipartimenti di Stato. Concludendo il suo discorso all’accademia militare di West Point Obama ha detto: «Voglio essere chiaro: nessuno di questi obiettivi sarà raggiunto facilmente. La battaglia contro la violenza estremista non finirà tanto presto, e va ben oltre l’Afghanistan e il Pakistan. Questo sarà un test di prova per la nostra società libera, e per la nostra leadership nel mondo».
La guerra Usa-anche dal mare 
Ogni impero ha i suoi simboli, che ne incarnano il potere e lo rendono riconoscibile in tutti i paesi. Alessandro Magno aveva la falange, i romani le legioni, gli ottomani le schiere di giannizzeri,occhiali da vista scontati, gli spagnoli i galeoni, i britannici i vascelli e le cannoniere, il Terzo Reich hitleriano le panzerdivision.
Il simbolo del potere statunitense da mezzo secolo sono le portaerei, ibrido che domina tutti i campi di battaglia in cielo, nel mare e sulla terra. Ma che soprattutto testimonia agli occhi del mondo la capacità statunitense di essere Impero: sono lo strumento per arrivare a colpire ovunque.
Anche la guerra in Afghanistan, Paese senza coste e senza oceani, si fa con le portaerei, la Uss Eisenhower scaglia i suoi caccia verso le postazioni dei talebani, in questo paradosso, combattere dal mare in un paese senza mari, c’è anche il grande limite dell’ultima stagione dell’impero statunitense: il suo essere isolato, senza alleati di cui fidarsi.
Le basi afghane finiscono spesso sotto il tiro dei razzi, anche alle porte di Kabul. Il Pakistan è sempre più ostile e pericoloso, con continui attentati contro i convogli di rifornimenti per le truppe della Nato.
Il confinante Kirghizistan limita l’attività della Nato dall’aeroporto di Manas, di cui più volte ha ordinato la chiusura salvo poi concedere una nuova proroga a peso d’oro.
Così l’America si ritrova a lottare da lontano e contare soprattutto sulle portaerei che navigano nell’Oceano Indiano, ad oltre 700 chilometri dalla frontiera meridionale dell’Afghanistan.
Ogni missione richiede un lunghissimo viaggio prima di arrivare sulla zona d’operazioni, con numerosi rifornimenti in volo per fare il pieno di carburante dalle grandi cisterne volanti.
Quando i piloti iniziano la vera partita, per assistere con le bombe i reparti di marines o di alleati europei alle prese con i talebani, hanno già alle spalle più di un’ora di pendolarismo ad alta quota.
E devono trovare la concentrazione per centrare bersagli costituiti da un pugno di guerriglieri, spesso nascosti tra le case o tra le rocce, senza veicoli.
Raid ad alta tecnologia, che costano decine di migliaia di dollari di carburante, per difendersi da miliziani in ciabatte e Kalashnikov: l’essenza della guerra asimmetrica.
La vita su una portaerei non è facile. A guardarla sembra offrire spazi infiniti: la Eisenhower è lunga 333 metri, come un grattacielo sdraiato al suolo. Il grande hangar custodito nella sua pancia è largo 34 metri e lungo 209: sembra un palazzetto dello sport.
Ma è solo un’illusione. In realtà sottocoperta ogni centimetro è occupato e la convivenza diventa serrata come in un sottomarino. Perché ogni portaerei è una città con circa 6 mila abitanti, che spesso restano in viaggio per oltre sei mesi e – nei momenti di crisi – rimangono senza toccare porto per oltre 150 giorni.
A bordo ci sono due mondi che vivono paralleli e separati: gli uomini del cielo e quelli del mare. I primi si occupano degli stormi imbarcati: 90 tra caccia ed elicotteri.
Per avere un’idea di quale forza bellica si concentri, basta pensare che un aeroporto militare italiano in genere ospita al massimo 20 jet.
Per mantenere efficienti gli aerei, armarli e rifornirli, gestire le loro operazioni servono più di 2.500 specialisti: ci sono officine in grado di riparare tutto e scorte di pezzi e ordigni illimitate.
Oggi la punta di lancia sono gli F-18 Hornet, macchine che doppiano la velocità del suono e sganciano otto tonnellate di bombe, che hanno preso il posto dei leggendari Tomcat resi famosi da Tom Cruise in ‘Top Gun’, il film manifesto della riscossa reaganiana.
Anche allora, 25 anni fa, si scelse come immagine della rinascente potenza statunitense la portaerei e i piloti di marina con i loro occhiali Ray-Ban.
Si arrivò persino a scomodare la fantascienza, inventando una pellicola, ‘Countdown dimensione zero’,ray ban 3044, che faceva viaggiare indietro nel tempo la Nimitz – gemella dell’Eisenhower – fino alla vigilia di Pearl Harbor in modo da poter debellare l’assalto a tradimento giapponese.
Tutto, pur di ridare agli americani fiducia nel loro simbolo imperiale. Che si era molto appannato dopo i giorni di gloria delle Midway e del conflitto mondiale. In Vietnam il napalm degli stormi imbarcati aveva seminato orrore senza sconfiggere i nemici.
Poi durante il confronto con l’Iran di Khomeini e l’occupazione dell’ambasciata Usa, le portaerei avevano incrociato per cinque mesi nel Golfo Persico senza intimorire gli ayatollah: la Eisenhower faceva la spola tra due punti definiti ‘Kermit’ e ‘Gonzo’, come i personaggi del Muppet Show, un modo per indicare l’inutilità della spedizione. Sulla nave la disciplina era diventata molto allegra, con gang di marinai di colore che impedivano l’accesso dei locali agli ufficiali e ogni genere di traffico.
Poi da Reagan in avanti è cambiato tutto: le portaerei sono ritornate l’icona della forza, che ha espugnato Grenada, Panama e infine ha piegato Saddam Hussein scacciandolo dal Kuwait, nella Tempesta del Deserto combattuta però decollando dal mare.
Le portaerei rappresentano lo strapotere militare e tecnologico degli Stati Uniti. Costano 3 miliardi di euro. Navigano per gli oceani ma sono decisive per le battaglie di cielo e terra. Come la Eisenhower, usata per la guerra in Afghanistan: una città galleggiante e autosufficiente sulla quale vivono 6 mila persone.
la guerra dell’Italia
Non solo il presidente americano ma anche l’Italia è in prima linea in un conflitto difficile. I rinforzi italiani. La storia del nostro intervento militare. Il problema Iran.
Con il secondo invio di rinforzi in pochi mesi e il sostanziale raddoppio delle truppe americane sotto la sua presidenza, la guerra in Afghanistan è diventata la guerra di Obama. Presentata in campagna elettorale come la guerra giusta da contrapporre alla guerra sbagliata in Iraq, Obama tra mille tentennamenti non ha potuto negare per la seconda vota i rinforzi chiesti dai militari sul campo, anche se con il discorso a West Point ha cercato di limitare gli obiettivi della guerra e i tempi (18 mesi per raggiungere gli obiettivi), sconfessando tra l’altro quella che è sempre stata la posizione della Nato.
L’obiettivo di Obama è chiaro: arrivare a una via di uscita onorevole dai monti afghani prima delle prossime elezioni presidenziali americane. A Washington i timori sono molto alti per una guerra che sta andando molto male e per la quale non sembra esserci una soluzione complessiva (perché coinvolge il problema Pakistan) a portata di mano. Ormai la ripetuta affermazione che non sarà un nuovo Vietnam sembra diventare sempre più un auspicio che la fotografia della realtà.
La guerra in Afghanistan non è però diventata solo la guerra di Obama. E’ anche la guerra dell’Italia.
Roma con i rinforzi annunciati negli ultimi giorni schiererà 3.700 soldati in Afghanistan entro il secondo semestre del 2010 con picchi che potrebbero arrivare a quasi 4mila unità. Diventa quindi la prima operazione degli ultimi 15 anni per numero di soldati impiegati, più dell’Iraq e del Libano per intenderci.
Dal dopoguerra a oggi solo l’operazione Libano II del gen. Angioni nel 1982 ha impiegato più soldati e siamo più o meno ai livelli di Restore Hope in Somalia del 1992. Purtroppo sono già morti in Afghanistan 21 soldati italiani, un bilancio secondo solo a quello dei caduti in Iraq.
Anche come durata l’intervento italiano in Afghanistan, iniziato nel 2002, sta scalando la classifica tra le principali missioni all’estero, seconda ormai solo al Kosovo.
Dopo l’operazione a Timor Est e altre missioni minori, è anche quella più lontana, a oltre 6mila chilometri dai confini nazionali, con tutte le conseguenze in termini di impiego di risorse logistiche che ciò comporta.
Insomma per impiego di soldati e mezzi, per il tipo di guerra in corso e le perdite subite, il tipo di territorio in cui siamo impegnati, la distanza dalla madrepatria l’operazione in Afghanistan è senza dubbio la più rilevante operazione militare italiana all’estero.
A quale scopo?
Ufficialmente siamo in Afghanistan “al fine di assistere il Governo afgano nel mantenimento della sicurezza, favorire lo sviluppo delle strutture di governo, estendere il controllo del governo su tutto il Paese ed assistere gli sforzi umanitari e di ricostruzione
Ma a parte il sostegno agli Stati Uniti e la partecipazione all’Alleanza Atlantica è difficile individuare quali interessi nazionali italiani siano in gioco in Afghanistan, tali da giustificare la più importante missione militare del nostro paese.
Ancora più arduo sembra individuare quale sia il ritorno in termini politici e/o economici della nostra operazione.
L’Italia è presente in Afghanistan prima ancora dell’attuale missione Isaf della Nato. Abbiamo fatto parte della missione multinazionale a guida Usa Enduring Freedom lanciata dopo l’11 settembre e che ha visto l’Italia collaborare in vario modo, dall’impiego di mezzi navali a interventi sul campo come con la task force Nibbio del 2003, quando circa un migliaio di soldati furono schierati nella base Salerno a Khost, lungo il confine con il Pakistan, in una delle zone più calde del conflitto, proprio nelle vicinanze dell’area dove si supponeva (e si continua a supporre) si possa trovare Osama bin Laden e parte del gruppo dirigente di al qaida e dei taliban.
La task force Nibbio durò 6 mesi ma nel frattempo l’Italia era presente in Afghanistan anche sotto la bandiera della Nato e della missione Isaf. In questo ambito dopo l’iniziale dispiegamento a Kabul (e la vicina base di Baghram) il contingente italiano a partire dal 2005 è stato portato a 2mila soldati e schierato nella regione occidentale di Herat, dove l’Italia ha ottenuto il comando regionale. Progressivamente le forze italiane sono aumentate e sono state concentrate a Herat dove sono stati man mano attivati tre battaglioni operativi. Attualmente schieriamo 2.800 soldati (3.200 per le elezioni) e con il migliaio di soldati che invieremo nei prossimi mesi sarà probabilmente attivato un quarto battaglione nella zona di Herat.
Inizialmente la zona di Herat era considerata,lunette ray ban wayfarer, insieme al nord dove sono schierati i tedeschi, tra quelle più tranquille del paese. Non è più cosi. Dalle regioni meridionali la guerra è risalita lungo il ring afghano (la strada a forma di anello che collega le principali città del paese) verso nord. Nella regione di Herat sono oggi la provincia di Farah a sud e la provincia di Badghis al confine con il Turkmenistan quelle più difficili, dove abbiamo già subito numerosi attacchi.
Herat, nota per essere il feudo del signore della guerra Ismail Khan, è importante poi per essere al confine con l’Iran. Una zona cruciale per le rotte della droga, ma anche per i rapporti tra Kabul e Teheran e tra gli Usa e l’Iran. Qui si combatte la guerra afghana ma anche la partita tra Stati Uniti e Iran. Anzi i nostri soldati si trovano anche lungo l’altro fronte del complesso rapporto/conflitto tra Washington e Teheran, in Libano con l’Unifil tra Israele gli Hizbullah libanesi filo iraniani.
Se la partita Iran-Usa dovesse deflagrare i nostri soldati si troverebbero proprio in due zone molto delicate. Per questo è un nostro fortissimo interesse evitare un possibile attacco israeliano alle centrali nucleari iraniani: ci troveremmo proprio nell’area delle possibili reazioni di Teheran.
Ma nonostante il nostro impegno in Afghanistan e in Libano non siamo riusciti per esempio a entrare nel gruppo 5+1 (i 5 membri con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania) dei negoziatori con l’Iran, da cui fummo inspiegabilmente esclusi durante il precedente governo Berlusconi, proprio quando eravamo presidenti di turno dell’Unione Europea e quindi avevamo una carta in più da giocare per entrare insieme alla Germania nel club dei negoziatori.
Seguendo l’esempio di Obama il nostro governo ha fissato per il 2013 il ritiro dei nostri soldati, sulla base dei tempi della legislatura italiana, ed è probabile che faranno altrettanto gli alleati. Gli alleati vogliono evitare di essere quelli cui gli americani in partenza lascino i problemi afghani che presumibilmente non saranno risolti nei prossimi 18 mesi. Insomma problemi afghani agli afghani, come fecero a suo tempo i britannici e i sovietici.
Molti afghani (e taliban) lo hanno sempre saputo: è solo questione di tempo e gli stranieri se ne andranno.
Per maggiori chiarimenti della situazione Afgana potete visionare i seguenti link-
www.centaf.af.mil  -  www.difesa.it
 
 
 
di Antonio Carlucci, Gianluca Di Feo e Alfonso Desiderio
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